giovedì 23 aprile 2015

La gola, simbolo del vizio dell'avidità: Dante


L’episodio autobiografico del Canto XXIII del Purgatorio dantesco ha il suo centro nel ridar vita al passato, ad opera dei due amici di un tempo, Dante e Forese Donati. E' collocato sullo sfondo, rispetto alla descrizione riguardante la condizione delle anime dei golosi. Lo sguardo di Dante è colpito dalla magrezza impressionante delle anime, così ridotte dal desiderio inappagabile dell’acqua e dei frutti di un albero. La loro golosità non li porta ad aumentare di peso, ma, ad ogni boccone, a sentirsi sempre più deboli e deperiti, marcando, così, i loro volti scheletrici.

















 
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,

palida ne la faccia, e tanto scema,
che da l’ossa la pelle s’informava.                                 24

Non credo che così a buccia strema
Erisìttone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n’ebbe tema.                          27

Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!’                            30

Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge ‘omo’
ben avria quivi conosciuta l’emme.                               33

Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d’un’acqua, non sappiendo como?                    36

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,                          39

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».                  42

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.                          45

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.                                       48

«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;                                  51

ma dimmi il ver di te, di’ chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».                            54

«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos’io lui, «veggendola sì torta.                              57

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».                     60

Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro ond’io sì m’assottiglio.                              63

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.                                  66

Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.                                69

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovrìa dir sollazzo,                                72

ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua vena».                               75



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