La seconda C del Liceo Classico "Volta" di Como nell'anno scolastico 2014 / 2015 propone una selezione di brani, tratti dalla letteratura di tutti i tempi, che hanno come oggetto una riflessione sul rapporto fra uomo e cibo.
Immaginate di vedere davanti a voi, in un unico enorme spazio
delimitato da biglietterie e recinzioni, tutti i paesi del mondo
raggiungibili senza l'uso di mezzi di trasporto, senza la necessità di
portare un documento d'identità o un passaporto. Immaginate di non dover
trascorrere otto ore seduti su un sedile di un aereo per raggiungere la
costa orientale degli Stati Uniti o di non sentirsi disorientati e
assonnati a causa del fuso orario. Immaginate un'esposizione universale
dove ogni padiglione ha le proprie caratteristiche, religioni, usi,
costumi e lingue; dove il colore della pelle non è più un problema, ma
solo un segno distintivo della propria appartenenza a un determinato
emisfero del mondo; dove la lingua ufficiale diventa l'inglese, poiché è
l'unico modo per riuscire a comprendersi e per comunicare. Infine,
immaginate sei ragazzi che dopo un'ora di treno si ritrovano in questo
spazio a rappresentare l'Italia.
Joyce, Petronio, Alceo,
Federico Garcia Lorca, Pablo Neruda e Charles Baudelaire sono stati i
nostri compagni di viaggio nel corso di questa esperienza e ognuno di
noi, leggendo a un pubblico multietnico, ha potuto portare un pezzo
della letteratura riguardante la tematica che spinge ormai da qualche
mese visitatori provenienti da tutto il mondo a recarsi a Milano: il
cibo.
Gente che va e che viene, in pochi si fermano e si
siedono, ma l'emozione rimane comunque molta. Al collo ognuno di noi
porta un badge con la scritta "libri parlanti" e mi accorgo presto che
le persone che passano dal "Vivaio scuole" all'interno del palazzo
Italia lo osservano attentamente; alcuni ci chiedono addirittura se,
come in Fahrenheit 451, noi ragazzi rappresentiamo un libro che possiamo
recitare a memoria.
Grazie a Lorenzo Canali per la splendida esperienza, e grazie agli universitari - dj che ci hanno ospitati nella loro trasmissione, Obbligo di frequenza, per una divertente chiacchierata!
Sergej Luk'janenko è fra i più apprezzati scrittori di fantascienza contemporanei, e in questo brano, tratto dal romanzo Trix Solier, L'apprendista mago, il suo intento dichiarato non è tanto coinvolgere in una storia avventurosa, ma presentare una distopia come profezia che presto si potrebbe avverare anche nel mondo reale.
L'invenzione del fast food può essere considerata uno scontro fra tradizione e innovazione. Le nuove generazioni, che adattano la loro vita ad un ritmo frenetico, trovano invitante l'idea di poter preparare e consumare il cibo senza rallentare la corsa, ma si dimenticano in questo modo il piacere dei pasti in compagnia, dove si rimane seduti a gustare il sapore del cibo e concedersi un'ora di pausa.
"Grazie!" fece il mago. "Mi spieghi cosa c'è di male a preparare un pollo alla vecchia maniera?"
"Niente!" replicò il giovane cuoco. "Ma se ne potrebbero preparare tanti in pochissimo tempo!"
"I soliti giovani!" commentò Sauerampfer. "Tutto va fatto in fretta efuria!Ma hai mai riflettuto sulle conseguenze di quella invenzione? In ogni angolo della città spunterebbe un venditore di polli allo spiedo!"
"E che ci sarebbe di male?" domandò Domac meravigliato. "La gente potrebbe procurarsi da mangiare senza dover aspettare più di tanto!"
"Ma non dimenticare che ogni cibo ha bisogno di tempo" osservò il mago addentando il suo cosciotto. La cosa più invitante per una persona affamata è proprio il fatto di mettersi a tavola, chiacchierare, divertirsi e bere birra o vino. E' solo dopo aver consumato un bel pranzo lungo e squisito, e condito per giunta da discorsi interessanti, che una persona si alza da tavola allegra e soddisfatta. Ma che succederebbe se tutto questo fosse rimpiazzato da una ruota delle meraviglie? Avresti sempre la parola "veloce" in bocca. E credimi, è una parola pericolosa!" (...)
"Che incubo!" esclamò il mago con voce lamentosa. "Ma ti rendi conto di cosa potrebbe accadere a un popolo che si nutra di cose del genere? La gente comincerebbe a mangiare in movimento e finirebbe per rovinarsi lo stomaco. Quindi, con il tempo, inizierebbe ad avere problemi di digestione, ingrasserebbe a dismisura, si rovinerebbe il carattere, potrebbe pure dire addio ai denti e finirebbe per deprimersi. E poi se si comincia con il mangiare in movimento, si rischia di fare tutto in fretta e furia. E ci si ritroverebbe una società in cui gli uomini non hanno più il tempo per pensare. "
"Tanto prima o poi faranno tutti così" dichiarò Domac. "Il progresso non si può arrestare!"
"Speriamo accada il più tardi possibile" tuonò Sauerampfer. "E soprattutto non nei tempi in cui viviamo!"
Giuseppe Abbamonte non è un autore famoso, e la sua "Poesia del fast food" non è composta con uno
stile elevato, ma è l'osservazione schietta di chi si trova davanti a
una globalizzazione a 360 gradi, che coinvolge perfino il cibo, lo
trasforma in fast food, spesso plastica in pezzi di pane, o negli “all
you can eat”, in cui si mangia fino a scoppiare. Spesso, quando si è
all'estero, non si cercano più i ristoranti tradizionali e le cucine
tipiche del luogo; non importano il gusto o la qualità, ormai si è
sempre alla ricerca di cibi veloci, ma giganti, per pasti veloci, ma
necessari, che riflettono le necessità di un'umanità sempre di corsa,
indaffarata, che non ha più tempo nemmeno per pensare. A
questo proposito, il poeta ci invita a non far diventare una “fast
life” la vita, come abbiamo invece fatto con il cibo; siamo esortati a
godere ogni momento dell'esistenza, perché è una e non possiamo
permetterci di farne un gigantesco bolo di emozioni indistinte, di cui,
in futuro, non potremo far altro che pentirci di non aver vissuto.
L'autore latino del I secolo dopo Cristo, Petronio Arbitro,
nel Satyricon propone un episodio grottesco: il ricco padrone, Trimalcione,
liberto così facoltoso da avere un trombettiere personale che segnala le ore
del giorno, offre ai convitati un banchetto, in cui lusso, sfarzo ed eccessi
fanno da padroni. La volgarità e l’ostentazione paiono le sue cifre
caratteristiche:il liberto mette in atto un vero e proprio spettacolo,
fatto di trovate e colpi di scena, governati dal cattivo gusto. Il passo
propone il momento culminante della cena: sulla tavola viene portato un
cinghiale con due cesti di palme e datteri appesi alle zanne, dei cinghialetti
appesi alle mammelle e degli uccelli che, una volta aperto il fianco, si
liberano dal suo ventre. Con
il suo realismo comico, Petronio intende offrire
una rappresentazione parodisticamente deformata della realtà dei liberti
arricchiti, che l’autore osserva con divertito distacco, e che ha molti
punti di contatto con lo spreco presente sulle tavole dei ricchi dei
nostri tempi.
[40] « Perfetto! » esclamiamo a una voce, e,
alzate le mani al soffitto, giuriamo che Ipparco ed Arato non erano personaggi
da paragonare con lui, finché non intervennero i servi a distendere sui letti
dei copriletti ricamati, in cui c'erano reti e vedette alla posta con spiedi e
tutta l'attrezzatura per la caccia. Né ancora capivamo dove si andasse a
parare, quando fuori dal triclinio si levò un gran baccano, ed ecco che cani
della Laconia incominciarono a correre per ogni verso senza risparmiare neppure
la tavola. Li seguiva un'alzata, dov'era deposto un cinghiale di prima grandezza
e con tanto di berretto, dalle cui zanne pendevano due canestrini intrecciati
di palme, uno pieno di datteri freschi, l'altro di datteri secchi. Intorno poi
dei cinghialetti di pasta dura, come appesi alle mammelle, stavano ad indicare
che si trattava di una femmina. E questi, a differenza del resto, servirono da
apoforeti. Intanto, a trinciare il cinghiale, non si presentò quello Scalca che
prima aveva fatto a pezzi i capponi, ma un gigante dalla gran barba, avvolto di
fasce le gambe e coperto di un mantelletto multicolore, che, impugnato il
coltello da caccia, lo immerse con forza nel fianco del cinghiale, dalla cui
ferita uscì un volo di tordi. C'erano lì pronti con le canne gli uccellatori e
li catturarono sul momento mentre svolazzavano per il triclinio. Poi, dopo aver
fatto consegnare a ciascuno il suo, aggiunse Trimalcione: « E adesso guardate
quel porco selvatico che ghiande delicate si mangiava ». Immediatamente i
valletti si accostarono ai canestrini che pendevano dalle zanne e divisero in
parti uguali tra i convitati datteri secchi e datteri freschi.
Nel brano,
tratto dal poema eroicomico Morgante, Luigi Pulci descrive l’incontro tra Morgante e Margutte, due giganti,
accomunati dalla dismisura, che li spinge a guardare alla vita da una prospettiva
diversa da quella abituale, alla rovescia, tanto da
capovolgere i valori consueti: il credo cristiano viene sostituito, in Margutte, dal credo
gastronomico. L’unico motivo per cui valga la pena vivere è il cibo,
tanto che Margutte non riconosce alcuna altra fede.
114 Disse Morgante: - Tu sia il ben
venuto:
ecco
ch’io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t’ho
domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino. -
115 Rispose allor Margutte: - A
dirtel tosto,
io non
credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel
cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo
alcuna volta anco nel burro,
nella
cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto
più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra
tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli
crede;
116 e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è
la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson
esser tre, due ed un solo,
e diriva
dal fegato almen quello.
Il “Manifesto della cucina futurista” di
Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo italiano, è stato
pubblicato il 20 gennaio 1931. Questo movimento si sviluppa in Italia nel XX
secolo in ambito artistico, culturale, letterario e persino nella gastronomia,
dove il dinamismo, la ricerca di “un nuovo giudicato da tutti pazzesco” sono
gli ingredienti necessari. Lo scopo della cucina futurista è
oltrepassare la tradizione e l’esempio passato, per proiettarci in un “nuovo”
giudicato da tutti pazzesco, interessato non solo alla riduzione del costo
della vita, ma anche alla scoperta di una dieta più equilibrata. Infatti, come
viene sottolineato da Marinetti,
“si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”. In
questo brano, il piatto preso in discussione è la pasta, sconsigliata rispetto a
piatti nutrizionalmente migliori.
Invito alla chimica
La
pastasciutta, nutritivamente inferiore del 40% alla carne, al pesce, ai legumi,
lega coi suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai
sonnolenti velieri, in cerca di vento. Perchè opporre ancora il suo blocco
pesante all'immensa rete di onde corte lunghe che il genio italiano ha lanciato
sopra oceani e continenti, e ai paesaggi di colore forma rumore che la
radiotelevisione fa navigare intorno alla terra? I difensori della pastasciutta
ne portano la palla o il rudero nello stomaco, come ergastolani o archeologi.
Ricordatevi poi che l'abolizione della pastasciutta libererà l'Italia dal
costoso grano straniero e favorirà l'industria italiana del riso.
Invitiamo la
chimica al dovere di dare presto al corpo le calorie necessarie mediante
equivalenti nutritivi gratuiti di Stato, in polvere o pillole, composti
albuminoidei, grassi sintetici e vitamine. Si giungerà così ad un reale ribasso
del prezzo della vita e dei salari con relativa riduzione delle ore di lavoro.
L’episodio
autobiografico del Canto XXIII del Purgatorio dantesco ha il suo centro nel ridar vita al passato, ad opera dei due
amici di un tempo, Dante e Forese Donati. E' collocato sullo sfondo, rispetto alla
descrizione riguardante la condizione delle anime dei golosi. Lo sguardo di Dante è colpito dalla
magrezza impressionante delle anime, così ridotte dal desiderio
inappagabile dell’acqua e dei frutti di un albero. La loro golosità non li porta
ad aumentare di peso, ma, ad ogni boccone, a sentirsi sempre più deboli e deperiti,
marcando, così, i loro volti scheletrici.
Ne li occhi era
ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema,
che da l’ossa la pelle s’informava.
24
Non credo che così a buccia strema
Erisìttone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n’ebbe
tema. 27
Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di
becco!’
30
Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge ‘omo’
ben avria quivi conosciuta
l’emme.
33
Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d’un’acqua, non sappiendo como?
36
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista
squama,
39
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».
42
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea
conquiso. 45
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di
Forese. 48
«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch’io
abbia; 51
ma dimmi il ver di te, di’ chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
54
«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos’io lui, «veggendola sì
torta.
57
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra
voglia».
60
Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro ond’io sì
m’assottiglio. 63
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.
66
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua
verdura. 69
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovrìa dir
sollazzo, 72
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua
vena».
75
Il melo, pianta fiorita, nutrice di frutti succosi, rinasce
ogni primavera portando con sé colori, sentimenti, passioni. E la mela,
totalmente dipendente dalla madre, vive ogni istante, non si preoccupa di ciò
che la circonda, di ciò che le succede intorno; paziente, aspetta e osserva,
circondata dalle foglioline.
Ecco la poesia del premio Nobel polacco Wisława Szymborska,
“Il Melo”.
W raju majowym, pod piękną jabłonką,
Co się kwiatami, jak śmiechem zanosi,
pod nieświadomą dobrego i złego,
pod wzruszającą na to gałęziami,
pod niczyją, ktokolwiek powie o niej moja;
pod obciążoną tylko przeczuciem owocu,
pod nieciekawą, który rok, jaki kraj,
co za planeta i dokąd się toczy,
pod tak mało mi krewną, tak bardzo mi inną,
że ani nie pociesza mnie, ani przeraża,
pod obojętną, cokolwiek się stanie,
pod drżącą z cierpliwości każdym listkiem,
pod niepojętą, jakby mi się śniła,
albo śniło się wszystko oprócz niej
zbyt zrozumiale i zarozumiale –
pozostać jeszcze, nie wracać do domu.
Do domu wracać chcą tylko więźniowie.
TRADUZIONE ITALIANA
Nel mese di maggio, sotto un bel melo
Che scoppia di fiori come di risate,
che è incosciente del bene e del male,
e scrolla in proposito i suoi rami,
che è di nessuno, chiunque sia che dice di lui “mio”:
gravato solo dal presentimento del frutto,
che non è curioso di sapere quale anno, paese,
quale pianeta e verso dove rotoli,
che è così poco a me parente, e così estraneo
da non consolarmi né spaventarmi,
che è indifferente, qualunque cosa accada,
tremante di pazienza con ogni fogliolina,
che è inconcepibile, come se lo sognassi,
o sognassi tutto eccetto lui,
un tutto troppo trasparente e arrogante –
restare ancora, non tornare a casa.
A casa vuole tornare solo il prigioniero.
Pablo Neruda, durante gli anni del suo esilio, soggiornò spesso in Italia, e in molte poesie ne lodò le bellezze e la
fertilità . In questo breve componimento,
il poeta cileno ricorda il soggiorno appena fuori Roma, nella
cittadina di Frascati, quando era ancora
visibilmente segnata dalle brutalità della guerra. Pur facendo intendere, nei
primi versi della poesia, la sua angoscia nel confrontarsi con i segni lasciati
da essa, ci rende partecipi del modo in
cui i frutti della terra siano riusciti ad avvolgerlo in un velo di pace e
spensieratezza, completamente estraneo alle tragedie della guerra. Questa poesia può essere definita un inno al
cibo, in quanto ne
vengono decantate le origini ed è descritto come medicina per l’anima, oltre che
nutrimento per il corpo.
I frutti
da L’uva e il vento
Lì a Frascati
i muri bucherellati
dalla morte,
gli occhi della guerra alle
finestre,
però la pace mi riceveva
con un sapore d’olio e di vino,
mentre tutto era semplice come il
paese
che mi offriva
il suo tesoro verde:
le piccole olive,
freschezza, sapore puro,
misura deliziosa,
capezzolo del giorno azzurro,
amore terrestre.
L'ode di NerudaIl pane trasmette non solo il gusto del cibo,
risvegliando in noi la voglia di assaporare ancora più intensamente
certi sapori, ma contiene anche dei messaggi, a volte palesi, a volte
velati, riguardo il vero valore della vita, presente nelle cose semplici
e raggiungibili da chiunque, se solo aprissimo gli occhi.
Origine
di ogni cosa, che per ognuno arriverà, perché di tutti, e che ogni
persona unisce, il pane è metaforicamente il sapore delle cose semplici.
In questo momento tutti avremmo bisogno di pane, per riscoprire il
valore delle cose essenziali, come la terra, da cui ogni cosa ha
origine, e l’amore, motore del mondo. Sarebbe bello eliminare i confini e
scoprire che la terra è di tutti, senza limitazioni, perché la vita
dovrebbe essere maggiormente condivisa, come certi sapori veri.
“Dal mare e dalla terra faremo pane,
coltiveremo a grano la terra e i pianeti,
il pane di ogni bocca,
di ogni uomo,
ogni giorno
arriverà perché andammo a seminarlo
e a produrlo non per un uomo
ma per tutti,
il pane, il pane
per tutti i popoli
e con esso ciò che ha
forma e sapore di pane
divideremo:
la terra,
la bellezza,
l’amore,
tutto questo ha sapore di pane.”
Pablo Neruda
Il miele è dolce, come ribadisce più volte la poesia "Il canto del miele" di Federico Garcìa Lorca, eppure contiene in sé un
retrogusto di amaro, che in questo caso è rappresentato dalla malinconia, dalle
ombre della notte e dalla foglia appassita.
Il miele è simbolo della vita, perché nell’esistenza di ciascuno si presentano
momenti infelici e demoralizzanti, che però l’uomo è in grado di superare
grazie a supporti e ricordi dolci e piacevoli, proprio come il sapore
predominante del miele.
Il miele è come il sole del mattino,
con tutta la grazia dell’estate
e il fresco antico dell’autunno.
E’ la foglia appassita ed è il frumento.
Oh divino liquore dell’umiltà,
sereno come un verso primitivo!
Tu sei l’armonia incarnata,
lo spirito geniale di liricità.
In te dorme la malinconia,
il segreto del bacio e del grido.
Dolcissimo. Dolce.
Questo è il tuo aggettivo.
Dolce come il ventre di una donna.
Dolce come gli occhi dei bimbi.
Dolce come le ombre della notte.
Dolce come una voce.
O come un giglio.
Per chi ha in sé la pena e la lira
tu sei il sole che illumina il cammino.
Equivali a tutte le bellezze, al colore, alla luce, ai suoni.
Il simposio era un rito collettivo di condivisione culturale,
in cui i partecipanti erano invitati ad abbandonarsi nelle danze, accompagnate da
musiche e inebrianti profumi. Spesso viene cantato dai poeti, ma con Alceo assume
una valenza particolare: non era un semplice banchetto, ma un’occasione di
dialogo, condivisione culturale e tregua dai dolori. Il vino era il
perfetto accompagnatore di ogni simposio, un dono divino, creato per
allontanare le sofferenze, come se fosse dotato di poteri che garantissero
l’autenticità e la veridicità dei pensieri. Proprio per questo Alceo esorta a
bere senza moderazione, cercando di mettere le preoccupazioni da parte: ritiene
che l’unico modo per combattere la fugacità del tempo sia saper godere dei
piaceri del vino, per trarne gioia.
Alceo fr.
346
« Beviamo.
Perché aspettare le lucerne?
Breve il tempo.
O amato fanciullo, prendi le grandi tazze
variopinte,
perché il figlio di Zeus e di Sèmele
diede agli uomini il vino
per dimenticare i dolori.
Versa due parti d'acqua e una di vino;
e colma le tazze fino all'orlo:
e una segua subito l'altra. »
(Trad. di
Salvatore Quasimodo)
Il vino di Baudelaire viene rappresentato
privo di ogni accezione edonistica, ma si trasforma in qualcosa di
raffinato, di buono ed eccelso. Esso non è un semplice strumento di
evasione dalla realtà dolorosa, o un ausilio per la scrittura. Nel vino
si rispecchiano tutte le metafore che hanno a che fare con i piaceri
della vita, dai più grandi a più piccoli, dai più innocenti ai più
misteriosi. Il conforto della bellezza trova in questa bevanda, che
Baudelaire definisce “ambrosia vegetale”, la sua massima essenza.
In
questa poesia, il vino sembra subire una personificazione, parla con
l’uomo e desidera finire nel suo corpo, consapevole che dalla loro
unione nascerà qualcosa di buono e raro. Il legame che unisce uomo e
vino si dimostra in questo testo indissolubile, non solo perché il vino
si accompagna alla nascita della poesia, ma perché, per averlo come
prodotto finito, all’uomo sono necessari dedizione, fatica e sudore. Il
vino è dunque un amico primitivo e sincero dell’uomo, un amico fidato,
in cui è sempre possibile trovare un sostegno, grazie alla dolcezza e
alla delicatezza del suo gusto.
Dentro le bottiglie cantava una
sera l'anima del vino:
“Uomo, caro diseredato, eccoti un
canto pieno
di luce e di fraternità da questa
prigione
di vetro e da sotto le vermiglie
ceralacche!
So quanta pena, quanto sudore e
quanto sole
cocente servono, sulla collina
ardente,
per mettermi al mondo e donarmi
l'anima;
ma non sarò ingrato nè malefico,
perchè sento una gioia immensa
quando scendo
giù per la gola d'un uomo
affranto di fatica,
e il suo caldo petto è una dolce
tomba
dove sto meglio che nelle mie
fredde cantine.
Senti come echeggiano i
ritornelli delle domeniche?
Senti come bisbiglia la speranza
nel mio seno palpitante?
Vedrai come mi esalterai e sarai
contento
coi gomiti sul tavolo e le
maniche rimboccate!
Come accenderò lo sguardo della
tua donna rapita!
Come ridarò a tuo figlio la sua
forza e i suoi colori!
La
storia di Anna Frank è conosciuta soprattutto per il suo finale
tragico e per tutti i momenti difficili, durante i quali qualsiasi
piacere tipico degli adolescenti, incluso l'alimentazione, era negato ad Anna, sua sorella Margot e
all'amico Peter.
Nel
diario, viene raccontato a Kitty, l'amica immaginaria a cui Anna confida le sue emozioni, come gli abitanti dell'alloggio
segreto si procurassero il cibo, di difficile reperibilità anche
quando non era necessario mantenere il segreto, come lo conservassero
e cosa potessero mangiare. Quanti ragazzi di quindici anni oggi non si
lamenterebbero, se fossero costretti a vivere di fagioli o se non
avessero a disposizione nemmeno un pezzo di cioccolata quando sono
stanchi? Anna non era certo felice che la sua vita fosse stata
ingiustamente sconvolta in quel modo; tuttavia è riuscita a ricavare
da una simile esperienza anche i lati migliori. Una cascata di
fagioli è quindi diventata un'occasione per ridere e dimenticare
momentaneamente tutto ciò che la circonda, nella dimostrazione che
il cibo non è solo un sostegno nei pomeriggi di studio e stanchezza,
ma può far nascere un sorriso
sinceramente divertito, in situazioni difficili come quella della
famiglia Frank.
Lunedì
9 novembre 1942
Cara
Kitty,
[…]
Tornando
alle faccende dell'alloggio segreto, bisogna pure che ti scriva
qualcosa del nostro approvvigionamento di viveri. Devi sapere che
quei signori del piano di sopra sono dei veri ghiottoni. Il pane ci è
fornito da un simpatico fornaio, conoscente di Koophuis. […]
Per
tenere in casa qualcosa di conservabile, oltre ai nostri 150
barattoli di verdura, abbiamo comperato 270 libbre di legumi secchi.
I sacchi di legumi erano appesi a uncini nel nostro corridoio (oltre
la porta segreta). Alcune cuciture dei sacchi sono saltate per il
peso. Decidemmo per ciò di mettere in soffitta le nostre provviste
per l'inverno, affidando a Peter l'incarico di portarle su. Cinque
dei sei sacchi erano già arrivati integri di sopra e Peter stava
trascinando su il sesto, di circa 50 libbre, quando la cucitura
inferiore del sacco si ruppe e una pioggia, o per meglio dire una
grandinata di fagioli si rovesciò giù per la scala con un fracasso
da giudizio universale; sotto ebbero l'impressione che tutta la casa
crollasse loro in testa. Grazie a Dio non c'erano estranei. Anche
Peter si spaventò, ma scoppiò a ridere quando mi vide ai piedi
della scala come un'isola in quel mare di fagioli, che mi arrivava
fino alle caviglie. Subito ci mettemmo a raccoglierli, ma i fagioli
sono così piccoli e lisci che si ficcano in tutti gli angoli.
Adesso, ogni volta che uno scende la scala, si china per raccattarne
una manciata che consegna alla signora.
[…]
In "Ho sognato la cioccolata per anni", Trudy Birger racconta la sua storia. Trudyè una bambina ebrea di
appena sedici anni, costretta a vivere il dramma storico dell’Olocausto; viene
chiusa in un campo di concentramento e obbligata a lottare ogni giorno per la
sopravvivenza. Vive un momento della sua vita inspiegabile per una
ragazzina della sua età; sa solamente di dover sopravvivere, per se stessa e
per sua madre, che diverrà la sua migliore amica per tutto il tempo trascorso in
questo nuovo, orribile luogo. Dentro di lei,
rimane intenso e costante il desiderio di non cedere e rimanere viva,
continuando a sognare un futuro luminoso.
L’EXPO può fare ricordare a noi
tutti quanto siamo fortunati a trovare, ogni giorno, del cibo
nelle nostre abitazioni, nonostante continuiamo a lamentarci di tutto ciò che
possediamo. Gli uomini e le donne che vissero e vivono il dramma della deportazione creano un rapporto
particolare con il cibo, divenuto a
volte un premio o una ricompensa, da conquistarsi con fatica e sudore. Finita la tragedia, che mai scorderanno, non riescono a
cambiare il loro rapporto con questa fonte di vita, che dovrebbe essere un
diritto inderogabile di ogni essere umano.
CAPITOLO 7: “la vita normale”
La vista di una patata mi ricorda
sempre quei tempi. Sento ancora il gusto della brodaglia piena di terra che ci
davano nei campi . Come ero grata quando trovavo un pezzetto di buccia che vi
galleggiava! Ricordo che mi sentivo incredibilmente fortunata, quasi
milionaria, se mi capitava di raccogliere una patata in un campo, anche
schiacciata o marcia e riuscivo a trafugarla nel ghetto. Posso inoltre dire
quando sono particolarmente ansiosa prima ancora di accorgermene, perché inizio
a comprare enormi quantità di pane e ad accumularlo. Non riesco ancora ad
abituarmi all’idea che una persona possa mangiare tutto il pane che vuole. E
ogni volta che mio marito o qualcun altro mi chiede che strada voglio fare,
ridivento la bambina spaventata che stava per essere ammazzata dai nazisti nel
1934, perché disse a suo padre di prendere la strada panoramica invece
dell’altra.
(…)
Nessuno, eccetto un altro
sopravvissuto all’Olocausto, può pienamente comprendere quello che ci è
successo. Questi ricordi non sono come degli indumenti, qualcosa di cui ci si
può spogliare e mettere nell’armadio. Sono incisi sulla nostra pelle! Non
possiamo liberarcene.
Il cibo ne “I Promessi
Sposi” è un elemento ricorrente e viene utilizzato da Manzoni con molteplici
funzioni lungo tutta l’opera. L’autore ad esempio si serve di vari generi
alimentari, dalla polenta alle carni più raffinate, per connotare lo status
sociale di un personaggio e per marcare la differenza tra i ricchi e i poveri,
oppure attribuisce ad una pietanza in particolare un valore simbolico, basti
pensare al pane del perdono di Fra Cristoforo. Nei due brani che verranno letti
però emergerà un altro aspetto del cibo: la sua mancanza, la carestia che
diventa fame del popolo. Manzoni prima compie una digressione storica sulle
cause della carestia del 1628, poi passa a descriverne gli effetti sugli uomini
che per la fame perdono il controllo razionale di sé e da personediventano
“marmaglia”, una massa pericolosa ed imprevedibile animata dagli istinti e
dalle passioni.
“Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le
provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno,
al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo,
affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia.
Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in
parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese,
ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini.
Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto
menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa,
molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da' contadini,
i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran
costretti d'andare ad accattarlo per carità “.
“I
deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo
segretariesco d'allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti,
preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati
tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene
che giocavano una gran carta, ma convinti che non c'era da far altro,
conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
Uscivano,
sul far del giorno, dalle botteghe de' fornai i garzoni che, con una gerla
carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno
di que' malcapitati ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere
d'un salterello acceso in una polveriera. - Ecco se c'è il pane! - gridarono
cento voci insieme. - Sì, per i tiranni, che notano nell'abbondanza, e voglion
far morir noi di fame, - dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa la mano
all'orlo della gerla, dà una stratta, e dice: - lascia vedere -. Il ragazzetto
diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola
gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle
cigne. - Giù quella gerla, - si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un
tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida
fragranza si diffonde all'intorno. - Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar
pane anche noi, - dice il primo; prende un pan tondo, l'alza, facendolo vedere
alla folla, l'addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice,
fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del
guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a branchi,
in cerca d'altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c'era neppur
bisogno di dar l'assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si
trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e
via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza
paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così
piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan
fatto disegno sopra un disordine più co' fiocchi. - Al forno ! al forno! - si
grida ”.
Il testo di “The Fields of Athenry” di Pete St. John , composto negli anni Settanta, è riferito
ai fatti della grande carestia irlandese (Great Famery), risalente agli anni
tra il 1845 e il 1852.
Le cause di tale carestia
risiedono in una epidemia che colpì le patate, base dell’alimentazione, e nella
politica economica inglese, che vedeva l’Irlanda come una colonia da sfruttare.
Secondo gli irlandesi, ci sarebbero addirittura gli estremi per parlare di
genocidio da parte dell’Inghilterra, che non fece niente per risolvere la
situazione.
Michael, il protagonista della canzone, è costretto a rubare per
sfamare i propri figli: mosso dalle condizioni estreme in cui si trova la sua
famiglia, deve agire contro la legge, comprometttendo la propria
esistenza. Le autorità inglesi si riveleranno poi inflessibili nel condannarlo
alla deportazione.
Allargando l’orizzonte dall’Irlanda a tutto il mondo, anche oggi molte zone sono colpite da
carestie o segnate da problemi relativi al nutrimento, dovuti a mancanza di
risorse. Nel limite del possibile, sia le autorità
locali sia i paesi stranieri dovrebbero contribuire per risolvere le situazioni più gravi.
The Fields of
Athenry
Pete St.John
By a lonely prison wall
I heard a young girl calling
Michael they are taking you away
For you stole Trevelyn's corn
So the young might see the morn.
Now a prison ship lies waiting in the bay.
Low lie the Fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly.
Our love was on the wing we had dreams and songs to sing
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.
By a lonely prison wall
I heard a young man calling
Nothing matters Mary when you're free,
Against the Famine and the Crown
I rebelled they ran me down
Now you must raise our child with dignity.
Low lie the Fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly.
Our love was on the wing we had dreams and songs to sing
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.
By a lonely harbor wall
She watched the last star falling
As that prison ship sailed out against the sky
Sure she'll wait and hope and pray
For her love in Botany Bay
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.
Low lie the Fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly.
Our love was on the wing we had dreams and songs to sing
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.
“Michael, ti hanno
portato via,
per aver rubato il mais di Trevelyn,
cosicché i bambini potessero vedere un altro mattino.
Adesso una nave-prigione è ormeggiata nella baia ad aspettare.
”Là dove sono i campi di Athenry,
dove una volta guardavamo
uccellini volare liberi,
il nostro amore aveva le ali
avevamo sogni e canzoni da
poter cantare
E' così desolante ora
attorno ai campi di Athenry.
Lungo un solitario muro di una prigione,
ho sentito un uomo
dire:
“Nulla importa, Mary, finchè sei libera tu.
Contro la carestia e la corona mi sono ribellato e loro mi hanno abbattuto.
Adesso devi tirar su nostro figlio con dignità.
”Lungo il muro solitario del porto, lei guardò l’ultima stella
cadere