giovedì 30 aprile 2015

Il cibo come eccesso ed esibizione: Petronio Arbitro e Luigi Pulci



L'autore latino del I secolo dopo Cristo, Petronio Arbitro, nel Satyricon propone un episodio grottesco: il ricco padrone, Trimalcione, liberto così facoltoso da avere un trombettiere personale che segnala le ore del giorno, offre ai convitati un banchetto, in cui lusso, sfarzo ed eccessi fanno da padroni. 
La volgarità e l’ostentazione paiono le sue cifre caratteristiche: il liberto mette in atto un vero e proprio spettacolo, fatto di trovate e colpi di scena, governati dal cattivo gusto. 
Il passo propone il momento culminante della cena: sulla tavola viene portato un cinghiale con due cesti di palme e datteri appesi alle zanne, dei cinghialetti appesi alle mammelle e degli uccelli che, una volta aperto il fianco, si liberano dal suo ventre. 
Con il suo realismo comico, Petronio intende offrire una rappresentazione parodisticamente deformata della realtà dei liberti arricchiti, che l’autore osserva con divertito distacco, e che ha molti punti di contatto con lo spreco presente sulle tavole dei ricchi dei nostri tempi.


 [40] « Perfetto! » esclamiamo a una voce, e, alzate le mani al soffitto, giuriamo che Ipparco ed Arato non erano personaggi da paragonare con lui, finché non intervennero i servi a distendere sui letti dei copriletti ricamati, in cui c'erano reti e vedette alla posta con spiedi e tutta l'attrezzatura per la caccia. Né ancora capivamo dove si andasse a parare, quando fuori dal triclinio si levò un gran baccano, ed ecco che cani della Laconia incominciarono a correre per ogni verso senza risparmiare neppure la tavola. Li seguiva un'alzata, dov'era deposto un cinghiale di prima grandezza e con tanto di berretto, dalle cui zanne pendevano due canestrini intrecciati di palme, uno pieno di datteri freschi, l'altro di datteri secchi. Intorno poi dei cinghialetti di pasta dura, come appesi alle mammelle, stavano ad indicare che si trattava di una femmina. E questi, a differenza del resto, servirono da apoforeti. Intanto, a trinciare il cinghiale, non si presentò quello Scalca che prima aveva fatto a pezzi i capponi, ma un gigante dalla gran barba, avvolto di fasce le gambe e coperto di un mantelletto multicolore, che, impugnato il coltello da caccia, lo immerse con forza nel fianco del cinghiale, dalla cui ferita uscì un volo di tordi. C'erano lì pronti con le canne gli uccellatori e li catturarono sul momento mentre svolazzavano per il triclinio. Poi, dopo aver fatto consegnare a ciascuno il suo, aggiunse Trimalcione: « E adesso guardate quel porco selvatico che ghiande delicate si mangiava ». Immediatamente i valletti si accostarono ai canestrini che pendevano dalle zanne e divisero in parti uguali tra i convitati datteri secchi e datteri freschi.








Nel brano, tratto dal poema eroicomico Morgante, Luigi Pulci descrive l’incontro tra Morgante e Margutte, due giganti, accomunati dalla dismisura, che li spinge a guardare alla vita da una prospettiva diversa da quella abituale, alla rovescia, tanto da capovolgere i valori consueti: il credo cristiano viene sostituito, in Margutte, dal credo gastronomico. L’unico motivo per cui valga la pena vivere è il cibo, tanto che Margutte non riconosce alcuna altra fede.

                     

114 Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
       ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
       che da due giorni in qua non ho beuto;
       e se con meco sarai accompagnato,

       io ti farò a camin quel che è dovuto.
       Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
       se se’ cristiano o se se’ saracino,
       o se tu credi in Cristo o in Apollino. -

115 Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
        io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
        ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
        e credo alcuna volta anco nel burro,
        nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
        e molto più nell’aspro che il mangurro;
        ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
        e credo che sia salvo chi gli crede;


116 e credo nella torta e nel tortello:
        l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
        e ’l vero paternostro è il fegatello,
        e posson esser tre, due ed un solo,
        e diriva dal fegato almen quello.
   





giovedì 23 aprile 2015

La cucina del futuro: Filippo Tommaso Marinetti


 Il “Manifesto della cucina futurista” di Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo italiano, è stato pubblicato il 20 gennaio 1931. Questo movimento si sviluppa in Italia nel XX secolo in ambito artistico, culturale, letterario e persino nella gastronomia, dove il dinamismo, la ricerca di “un nuovo giudicato da tutti pazzesco” sono gli ingredienti necessari. Lo scopo della cucina futurista è  oltrepassare la tradizione e l’esempio passato, per proiettarci in un “nuovo” giudicato da tutti pazzesco, interessato non solo alla riduzione del costo della vita, ma anche alla scoperta di una dieta più equilibrata. Infatti, come viene sottolineato da Marinetti,  “si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”. In questo brano, il piatto preso in discussione è la pasta, sconsigliata rispetto a piatti nutrizionalmente migliori.

Invito alla chimica

La pastasciutta, nutritivamente inferiore del 40% alla carne, al pesce, ai legumi, lega coi suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai sonnolenti velieri, in cerca di vento. Perchè opporre ancora il suo blocco pesante all'immensa rete di onde corte lunghe che il genio italiano ha lanciato sopra oceani e continenti, e ai paesaggi di colore forma rumore che la radiotelevisione fa navigare intorno alla terra? I difensori della pastasciutta ne portano la palla o il rudero nello stomaco, come ergastolani o archeologi. Ricordatevi poi che l'abolizione della pastasciutta libererà l'Italia dal costoso grano straniero e favorirà l'industria italiana del riso.

Invitiamo la chimica al dovere di dare presto al corpo le calorie necessarie mediante equivalenti nutritivi gratuiti di Stato, in polvere o pillole, composti albuminoidei, grassi sintetici e vitamine. Si giungerà così ad un reale ribasso del prezzo della vita e dei salari con relativa riduzione delle ore di lavoro. 

 

La gola, simbolo del vizio dell'avidità: Dante


L’episodio autobiografico del Canto XXIII del Purgatorio dantesco ha il suo centro nel ridar vita al passato, ad opera dei due amici di un tempo, Dante e Forese Donati. E' collocato sullo sfondo, rispetto alla descrizione riguardante la condizione delle anime dei golosi. Lo sguardo di Dante è colpito dalla magrezza impressionante delle anime, così ridotte dal desiderio inappagabile dell’acqua e dei frutti di un albero. La loro golosità non li porta ad aumentare di peso, ma, ad ogni boccone, a sentirsi sempre più deboli e deperiti, marcando, così, i loro volti scheletrici.

















 
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,

palida ne la faccia, e tanto scema,
che da l’ossa la pelle s’informava.                                 24

Non credo che così a buccia strema
Erisìttone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n’ebbe tema.                          27

Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!’                            30

Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge ‘omo’
ben avria quivi conosciuta l’emme.                               33

Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d’un’acqua, non sappiendo como?                    36

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,                          39

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».                  42

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.                          45

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.                                       48

«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;                                  51

ma dimmi il ver di te, di’ chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».                            54

«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos’io lui, «veggendola sì torta.                              57

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».                     60

Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro ond’io sì m’assottiglio.                              63

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.                                  66

Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.                                69

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovrìa dir sollazzo,                                72

ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua vena».                               75



Frutta, pane, miele: alimenti eterni. Wisława Szymborska, Pablo Neruda, Federico Garcìa Lorca


Il melo, pianta fiorita, nutrice di frutti succosi, rinasce ogni primavera portando con sé colori, sentimenti, passioni. E la mela, totalmente dipendente dalla madre, vive ogni istante, non si preoccupa di ciò che la circonda, di ciò che le succede intorno; paziente, aspetta e osserva, circondata dalle foglioline.

Ecco la poesia del premio Nobel polacco Wisława Szymborska, “Il Melo”.




W raju majowym, pod piękną jabłonką,

Co się kwiatami, jak śmiechem zanosi,

pod nieświadomą dobrego i złego,
pod wzruszającą na to gałęziami,

pod niczyją, ktokolwiek powie o niej moja;
pod obciążoną tylko przeczuciem owocu,

pod nieciekawą, który rok, jaki kraj,
co za planeta i dokąd się toczy,

pod tak mało mi krewną, tak bardzo mi inną,
że ani nie pociesza mnie, ani przeraża,

pod obojętną, cokolwiek się stanie,
pod drżącą z cierpliwości każdym listkiem,

pod niepojętą, jakby mi się śniła,
albo śniło się wszystko oprócz niej
zbyt zrozumiale i zarozumiale –

pozostać jeszcze, nie wracać do domu.
Do domu wracać chcą tylko więźniowie.

TRADUZIONE ITALIANA

Nel mese di maggio, sotto un bel melo
Che scoppia di fiori come di risate,

che è incosciente del bene e del male,
e scrolla in proposito i suoi rami,

che è di nessuno, chiunque sia che dice di lui “mio”:
gravato solo dal presentimento del frutto,

che non è curioso di sapere quale anno, paese,
quale pianeta e verso dove rotoli,

che è così poco a me parente, e così estraneo
da non consolarmi né spaventarmi,

che è indifferente, qualunque cosa accada,

tremante di pazienza con ogni fogliolina,

che è inconcepibile, come se lo sognassi,
o sognassi tutto eccetto lui,
un tutto troppo trasparente e arrogante –

restare ancora, non tornare a casa.
A casa vuole tornare solo il prigioniero.



                               
Pablo Neruda, durante gli anni del suo esilio, soggiornò spesso in Italia, e in molte poesie  ne lodò le bellezze e la fertilità . In questo breve componimento,  il poeta cileno ricorda il soggiorno appena fuori Roma, nella cittadina di Frascati, quando era  ancora visibilmente segnata dalle brutalità della guerra. Pur facendo intendere, nei primi versi della poesia, la sua angoscia nel confrontarsi con i segni lasciati da essa, ci rende partecipi  del modo in cui i frutti della terra siano riusciti ad avvolgerlo in un velo di pace e spensieratezza, completamente estraneo alle tragedie della guerra.  Questa poesia può essere definita un inno al cibo,  in quanto ne vengono decantate le origini ed è descritto come medicina per l’anima, oltre che nutrimento per il corpo.




I frutti 

 da L’uva e il vento

Lì a Frascati
i muri bucherellati
dalla morte,
gli occhi della guerra alle finestre,
però la pace mi riceveva
con un sapore d’olio e di vino,
mentre tutto era semplice come il paese
che mi offriva
il suo tesoro verde:
le piccole olive,
freschezza, sapore puro,
misura deliziosa,
capezzolo del giorno azzurro,
amore terrestre.






L'ode di Neruda Il pane trasmette non solo il gusto del cibo, risvegliando in noi la voglia di assaporare ancora più intensamente certi sapori, ma contiene anche dei messaggi, a volte palesi, a volte velati, riguardo il vero valore della vita, presente nelle cose semplici e raggiungibili da chiunque, se solo aprissimo gli occhi.
Origine di ogni cosa, che per ognuno arriverà, perché di tutti, e che ogni persona unisce, il pane è metaforicamente il sapore delle cose semplici. In questo momento tutti avremmo bisogno di pane, per riscoprire il valore delle cose essenziali, come la terra, da cui ogni cosa ha origine, e l’amore, motore del mondo. Sarebbe bello eliminare i confini e scoprire che la terra è di tutti, senza limitazioni, perché la vita dovrebbe essere maggiormente condivisa, come certi sapori veri.





“Dal mare e dalla terra faremo pane,
coltiveremo a grano la terra e i pianeti,
il pane di ogni bocca,
di ogni uomo,
ogni giorno
arriverà perché andammo a seminarlo
e a produrlo non per un uomo
ma per tutti,
il pane, il pane
per tutti i popoli
e con esso ciò che ha
forma e sapore di pane
divideremo:
la terra,
la bellezza,
l’amore,
tutto questo ha sapore di pane.”
Pablo Neruda










Il miele è dolce, come ribadisce più volte la poesia "Il canto del miele" di Federico Garcìa Lorca, eppure contiene in sé un retrogusto di amaro, che in questo caso è rappresentato dalla malinconia, dalle ombre della notte e dalla foglia appassita.
Il miele è simbolo della vita, perché nell’esistenza di ciascuno si presentano momenti infelici e demoralizzanti, che però l’uomo è in grado di superare grazie a supporti e ricordi  dolci e piacevoli, proprio come il sapore predominante del miele.

  Il miele è come il sole del mattino,
con tutta la grazia dell’estate
e il fresco antico dell’autunno.
E’ la foglia appassita ed è il frumento.

Oh divino liquore dell’umiltà,
sereno come un verso primitivo!
Tu sei l’armonia incarnata,
lo spirito geniale di liricità.
In te dorme la malinconia,
il segreto del bacio e del grido.
Dolcissimo. Dolce.
Questo è il tuo aggettivo.
Dolce come il ventre di una donna.
Dolce come gli occhi dei bimbi.
Dolce come le ombre della notte.
Dolce come una voce.
O come un giglio.
Per chi ha in sé la pena e la lira
tu sei il sole che illumina il cammino.
Equivali a tutte le bellezze, al colore, alla luce, ai suoni.









Il vino, simposio e ricerca dell'armonia. Alceo e Charles Baudelaire


Il simposio era un rito collettivo di condivisione culturale, in cui i partecipanti erano invitati ad abbandonarsi nelle danze, accompagnate da musiche e inebrianti profumi. Spesso viene cantato dai poeti, ma con Alceo assume una valenza particolare: non era un semplice banchetto, ma  un’occasione di dialogo, condivisione culturale e tregua dai dolori. 
Il vino era il perfetto accompagnatore di ogni simposio, un dono divino, creato per allontanare le sofferenze, come se fosse dotato di poteri che garantissero l’autenticità e la veridicità dei pensieri. Proprio per questo Alceo esorta a bere senza moderazione, cercando di mettere le preoccupazioni da parte: ritiene che l’unico modo per combattere la fugacità del tempo sia saper godere dei piaceri del vino, per trarne gioia. 


Alceo fr. 346

« Beviamo.
 Perché aspettare le lucerne?
 Breve il tempo.
 O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,
 perché il figlio di Zeus e di Sèmele
 diede agli uomini il vino
 per dimenticare i dolori.
 Versa due parti d'acqua e una di vino;
 e colma le tazze fino all'orlo:
 e una segua subito l'altra. »
(Trad. di Salvatore Quasimodo)





Il vino di Baudelaire viene rappresentato privo di ogni accezione edonistica, ma si trasforma in qualcosa di raffinato, di buono ed eccelso. Esso non è un semplice strumento di evasione dalla realtà dolorosa, o un ausilio per la scrittura. Nel vino si rispecchiano tutte le metafore che hanno a che fare con i piaceri della vita, dai più grandi a più piccoli, dai più innocenti ai più misteriosi.  Il conforto della bellezza trova in questa bevanda, che Baudelaire definisce “ambrosia vegetale”, la sua massima essenza.
In questa poesia, il vino sembra subire una personificazione, parla con l’uomo e desidera finire nel suo corpo, consapevole che dalla loro unione nascerà qualcosa di buono e raro. Il legame che unisce uomo e vino si dimostra in questo testo indissolubile, non solo perché il vino si accompagna alla nascita della poesia, ma perché, per averlo come prodotto finito, all’uomo sono necessari dedizione, fatica e sudore. Il vino è dunque un amico primitivo e sincero dell’uomo, un amico fidato, in cui è sempre possibile trovare un sostegno, grazie alla dolcezza e alla delicatezza del suo gusto.


Dentro le bottiglie cantava una sera l'anima del vino:
“Uomo, caro diseredato, eccoti un canto pieno
di luce e di fraternità da questa prigione
di vetro e da sotto le vermiglie ceralacche!

So quanta pena, quanto sudore e quanto sole
cocente servono, sulla collina ardente,
per mettermi al mondo e donarmi l'anima;
ma non sarò ingrato nè malefico,

perchè sento una gioia immensa quando scendo
giù per la gola d'un uomo affranto di fatica,
e il suo caldo petto è una dolce tomba
dove sto meglio che nelle mie fredde cantine.

Senti come echeggiano i ritornelli delle domeniche?
Senti come bisbiglia la speranza nel mio seno palpitante?
Vedrai come mi esalterai e sarai contento
coi gomiti sul tavolo e le maniche rimboccate!

Come accenderò lo sguardo della tua donna rapita!
Come ridarò a tuo figlio la sua forza e i suoi colori!
Come sarò per quell'esile atleta della vita
l'olio che tempra i muscoli dei lottatori!

Cadrò in te, ambrosia vegetale,
prezioso grano sparso dal Seminatore eterno,
perchè dal nostro amore nasca la poesia

che come un raro fiore s'alzerà verso Dio!”




Quando il cibo manca: l'olocausto. Anna Frank e Trudy Birger

La storia di Anna Frank è conosciuta soprattutto per il suo finale tragico e per tutti i momenti difficili, durante i quali qualsiasi piacere tipico degli adolescenti, incluso l'alimentazione, era negato ad Anna, sua sorella Margot e all'amico Peter.
Nel diario, viene raccontato a Kitty, l'amica immaginaria a cui Anna confida le sue emozioni, come gli abitanti dell'alloggio segreto si procurassero il cibo, di difficile reperibilità anche quando non era necessario mantenere il segreto, come lo conservassero e cosa potessero mangiare. Quanti ragazzi di quindici anni oggi non si lamenterebbero, se fossero costretti a vivere di fagioli o se non avessero a disposizione nemmeno un pezzo di cioccolata quando sono stanchi? Anna non era certo felice che la sua vita fosse stata ingiustamente sconvolta in quel modo; tuttavia è riuscita a ricavare da una simile esperienza anche i lati migliori. Una cascata di fagioli è quindi diventata un'occasione per ridere e dimenticare momentaneamente tutto ciò che la circonda, nella dimostrazione che il cibo non è solo un sostegno nei pomeriggi di studio e stanchezza, ma può far nascere un sorriso sinceramente divertito, in situazioni difficili come quella della famiglia Frank.




Lunedì 9 novembre 1942

Cara Kitty,
[…]
Tornando alle faccende dell'alloggio segreto, bisogna pure che ti scriva qualcosa del nostro approvvigionamento di viveri. Devi sapere che quei signori del piano di sopra sono dei veri ghiottoni. Il pane ci è fornito da un simpatico fornaio, conoscente di Koophuis. […]
Per tenere in casa qualcosa di conservabile, oltre ai nostri 150 barattoli di verdura, abbiamo comperato 270 libbre di legumi secchi. I sacchi di legumi erano appesi a uncini nel nostro corridoio (oltre la porta segreta). Alcune cuciture dei sacchi sono saltate per il peso. Decidemmo per ciò di mettere in soffitta le nostre provviste per l'inverno, affidando a Peter l'incarico di portarle su. Cinque dei sei sacchi erano già arrivati integri di sopra e Peter stava trascinando su il sesto, di circa 50 libbre, quando la cucitura inferiore del sacco si ruppe e una pioggia, o per meglio dire una grandinata di fagioli si rovesciò giù per la scala con un fracasso da giudizio universale; sotto ebbero l'impressione che tutta la casa crollasse loro in testa. Grazie a Dio non c'erano estranei. Anche Peter si spaventò, ma scoppiò a ridere quando mi vide ai piedi della scala come un'isola in quel mare di fagioli, che mi arrivava fino alle caviglie. Subito ci mettemmo a raccoglierli, ma i fagioli sono così piccoli e lisci che si ficcano in tutti gli angoli. Adesso, ogni volta che uno scende la scala, si china per raccattarne una manciata che consegna alla signora.
[…]







In "Ho sognato la cioccolata per anni", Trudy Birger racconta la sua storia. Trudy è una bambina ebrea di appena sedici anni, costretta a vivere il dramma storico dell’Olocausto; viene chiusa in un campo di concentramento e obbligata a lottare ogni giorno per la sopravvivenza. Vive un momento della sua vita inspiegabile per una ragazzina della sua età; sa solamente di dover sopravvivere, per se stessa e per sua madre, che diverrà la sua  migliore amica per tutto il tempo trascorso in questo nuovo, orribile luogo. Dentro di lei, rimane intenso e costante il desiderio di non cedere e rimanere viva, continuando a sognare un futuro luminoso.

L’EXPO può fare ricordare a noi tutti quanto siamo fortunati a trovare, ogni giorno, del cibo nelle nostre abitazioni, nonostante continuiamo a lamentarci di tutto ciò che possediamo. Gli uomini e le donne che vissero e vivono il dramma della deportazione creano un rapporto  particolare con il cibo, divenuto a volte un premio o una ricompensa, da conquistarsi con fatica e sudore.  Finita la tragedia, che mai scorderanno,  non riescono a cambiare il loro rapporto con questa fonte di vita, che dovrebbe essere un diritto inderogabile di ogni essere umano.



CAPITOLO 7: “la vita normale”
La vista di una patata mi ricorda sempre quei tempi. Sento ancora il gusto della brodaglia piena di terra che ci davano nei campi . Come ero grata quando trovavo un pezzetto di buccia che vi galleggiava! Ricordo che mi sentivo incredibilmente fortunata, quasi milionaria, se mi capitava di raccogliere una patata in un campo, anche schiacciata o marcia e riuscivo a trafugarla nel ghetto. Posso inoltre dire quando sono particolarmente ansiosa prima ancora di accorgermene, perché inizio a comprare enormi quantità di pane e ad accumularlo. Non riesco ancora ad abituarmi all’idea che una persona possa mangiare tutto il pane che vuole. E ogni volta che mio marito o qualcun altro mi chiede che strada voglio fare, ridivento la bambina spaventata che stava per essere ammazzata dai nazisti nel 1934, perché disse a suo padre di prendere la strada panoramica invece dell’altra.
(…)


Nessuno, eccetto un altro sopravvissuto all’Olocausto, può pienamente comprendere quello che ci è successo. Questi ricordi non sono come degli indumenti, qualcosa di cui ci si può spogliare e mettere nell’armadio. Sono incisi sulla nostra pelle! Non possiamo liberarcene.  





Quando il cibo manca: le carestie. Alessandro Manzoni e Pete St.John



Il cibo ne “I Promessi Sposi” è un elemento ricorrente e viene utilizzato da Manzoni con molteplici funzioni lungo tutta l’opera. L’autore ad esempio si serve di vari generi alimentari, dalla polenta alle carni più raffinate, per connotare lo status sociale di un personaggio e per marcare la differenza tra i ricchi e i poveri, oppure attribuisce ad una pietanza in particolare un valore simbolico, basti pensare al pane del perdono di Fra Cristoforo. Nei due brani che verranno letti però emergerà un altro aspetto del cibo: la sua mancanza, la carestia che diventa fame del popolo. Manzoni prima compie una digressione storica sulle cause della carestia del 1628, poi passa a descriverne gli effetti sugli uomini che per la fame perdono il controllo razionale di sé e da personediventano “marmaglia”, una massa pericolosa ed imprevedibile animata dagli istinti e dalle passioni.

Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da' contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità “.



“I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d'allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.


Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de' fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno di que' malcapitati ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso in una polveriera. - Ecco se c'è il pane! - gridarono cento voci insieme. - Sì, per i tiranni, che notano nell'abbondanza, e voglion far morir noi di fame, - dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa la mano all'orlo della gerla, dà una stratta, e dice: - lascia vedere -. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. - Giù quella gerla, - si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all'intorno. - Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, - dice il primo; prende un pan tondo, l'alza, facendolo vedere alla folla, l'addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a branchi, in cerca d'altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c'era neppur bisogno di dar l'assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co' fiocchi. - Al forno ! al forno! - si grida ”.



Il testo di “The Fields of Athenry” di Pete St. John , composto negli anni Settanta, è riferito ai fatti della grande carestia irlandese (Great Famery), risalente agli anni tra il 1845 e il 1852.
 Le cause di tale carestia risiedono in una epidemia che colpì le patate, base dell’alimentazione, e nella politica economica inglese, che vedeva l’Irlanda come una colonia da sfruttare. Secondo gli irlandesi, ci sarebbero addirittura gli estremi per parlare di genocidio da parte dell’Inghilterra, che non fece niente per risolvere la situazione.
Michael, il protagonista della canzone, è costretto a rubare per sfamare i propri figli: mosso dalle condizioni estreme in cui si trova la sua famiglia, deve agire contro la legge, comprometttendo la propria esistenza. Le autorità inglesi si riveleranno poi inflessibili nel condannarlo alla deportazione.
Allargando l’orizzonte dall’Irlanda a tutto il mondo,  anche oggi molte zone sono colpite da carestie o segnate da problemi relativi al nutrimento, dovuti a mancanza di risorse. Nel limite del possibile, sia le autorità locali sia i paesi stranieri dovrebbero contribuire  per risolvere le situazioni più gravi.



The Fields of Athenry
Pete St.John

By a lonely prison wall
I heard a young girl calling
Michael they are taking you away
For you stole Trevelyn's corn
So the young might see the morn.
Now a prison ship lies waiting in the bay.

Low lie the Fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly.
Our love was on the wing we had dreams and songs to sing
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.

By a lonely prison wall
I heard a young man calling
Nothing matters Mary when you're free,
Against the Famine and the Crown
I rebelled they ran me down
Now you must raise our child with dignity.

Low lie the Fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly.
Our love was on the wing we had dreams and songs to sing
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.

By a lonely harbor wall
She watched the last star falling
As that prison ship sailed out against the sky
Sure she'll wait and hope and pray
For her love in Botany Bay
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.

Low lie the Fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly.
Our love was on the wing we had dreams and songs to sing
It's so lonely 'round the Fields of Athenry.


 “Michael, ti hanno portato via,

 per aver rubato il mais di Trevelyn, 

cosicché i bambini potessero vedere un altro mattino. 

Adesso una nave-prigione è ormeggiata nella baia ad aspettare.

Là dove sono i campi di Athenry,

dove una volta guardavamo uccellini volare liberi,

il nostro amore aveva le ali

avevamo sogni e canzoni da poter cantare

E' così desolante ora attorno ai campi di Athenry.

Lungo un solitario muro di una prigione,

 ho sentito un uomo dire: “Nulla importa, Mary, finchè sei libera tu.

Contro la carestia e la corona mi sono ribellato e loro mi hanno abbattuto. 

Adesso devi tirar su nostro figlio con dignità.

Lungo il muro solitario del porto, lei guardò l’ultima stella cadere 

quando la nave prigione salpò verso l’orizzonte. 

Continuò a vivere sperando e pregando,

 per il suo amore nella Botany Bay.

E’ così desolante attorno ai campi di Athenry.



Dalle origini al Novecento: Omero, Joyce, Proust

Proust

Il sapore e il profumo di una madeleine, un piccolo dolce morbido a forma di conchiglia inzuppato nel tè, riportano alla memoria di Marcel Proust la sua infanzia. Questa sensazione, e la necessità di trasformarla in scrittura, danno origine all'intero ciclo di Alla ricerca del tempo perduto.

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Léonie mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…."

 Marcel Proust, Dalla parte di Swann


Joyce

Anche un altro grande romanzo che apre il Novecento letterario, l'Ulisse di Joyce, inizia illustrando i gusti del protagonista Leopold Bloom. Nel testo che segue, i preparativi per la colazione, l’uscita e l’inizio del suo vagabondaggio per la città si sovrappongono ai suoi pensieri e alle immagini della città che il protagonista attraversa. L’episodio, il quarto della seconda parte del romanzo, coincide con il libro V dell’Odissea, in cui Mercurio si reca dalla ninfa Calipso, esortandola a lasciar libero Ulisse, da lei trattenuto nell’isola di Ogigia. Il nuovo Ulisse, l’uomo moderno, non è un eroe come quello di Omero, ma un uomo qualunque, in una città caotica e labirintica, che cerca, senza forse neppure rendersene conto, la sua identità.

Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica. I rognoni erano nel suo pensiero mentre si muoveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d’estate dappertutto. Gli facevano venire un po’ di prurito allo stomaco. I carboni si arrossavano. Un’altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente.


Omero

La simbiosi di parole e sapori non è un frutto della modernità:  basti pensare, tra i capolavori della letteratura antica, a un poema come l'Odissea, che illustra ed esemplifica il variegato e complesso rapporto tra letteratura e cibo.
Nel canto nono dell’Odissea, Polifemo non rispetta le regole dell’ospitalità, bestemmia gli dei, beve senza misura e inoltre lo fa da solo; infatti egli afferma: “ Io non temo il fulmine di Zeus, né so in che cosa Zeus sia più potente di me. Del resto non me ne frega niente. E sta a sentire perché me ne frego. Quando dall’alto manda giù la pioggia, mi riparo in questa caverna, mangio un vitello arrosto e mi innaffio per bene la pancia sdraiato, ingurgitando un’anfora di latte. Faccio sacrifici d’animali solo a me, non agli dei, e alla più grande delle divinità: la mia pancia”. Per questi motivi è punito dagli dei e verrà sconfitto da Odisseo.
  
Arrivammo velocemente alla grotta, ma dentro non c’era; pasceva le grasse pecore. Entrati, vedemmo tante cose: graticci pieni di caci, steccati per agnelli e capretti, boccali pieni di siero e i secchi dove mungeva. Allora essi mi pregarono di rubare i formaggi e gli agnelli, di tornare indietro e di ripartire subito. Ma io non volli ascoltare, e sarebbe stato meglio, perché ero curioso di vederlo e di ricevere i doni ospitali. 
Lo aspettammo dentro, mangiando i formaggi ed ecco che giunse, spinse dentro le pecore grasse da mungere e, avendo alzato un masso enorme e pesante, chiuse la porta: nemmeno 22 carri l’avrebbero potuto muovere. Seduto, egli mungeva le pecore e le capre, accese il fuoco, e ci disse: “Stranieri, chi siete? E di dove navigate…?”. (…)io, molto prudentemente, gli risposi falsamente: “La nave me l’ha spezzata Poseidone, scuotitore della terra, cacciandola contro gli scogli; io solo con loro ho evitato la morte”. A queste parole, non rispose nulla, ma, con un balzo, afferrò due miei compagni, li sbatté a terra, facendo uscire sangue e cervelli. E fattili a pezzi, si preparò la cena: li maciullò e non lasciò nulla, né viscere, né carni, né ossa. (…)Il mattino dopo, il Ciclope divorò altri due compagni ed uscì a pascolare il gregge. (…)La sera rientrò e sbranò altri due compagni. 
Allora io parlai al Ciclope, avvicinandomi con un boccale di vino e glielo offersi, rimproverandolo per la sua ingiustizia verso di loro. Lui bevve e ne chiese dell’altro, chiedendomi come mi chiamavo, finché si ubriacò. Così gli risposi che mi chiamavo Nessuno e gli chiesi nuovamente di darmi il dono ospitale. Lui disse che mi avrebbe mangiato per ultimo e si addormentò. E subito, dopo aver riscaldato il palo appuntito nella brace, con l’aiuto dei compagni, lo ficcai nel suo occhio, che si bruciò. Polifemo gemette di dolore, si strappò il tizzone dall’occhio insanguinato, e chiamò a gran voce gli altri Ciclopi che vivevano nelle grotte vicine. Essi gli chiesero cosa volesse e lui rispose che Nessuno lo uccideva con l’inganno. Ma quelli gli dissero di rivolgersi al padre Poseidone, visto che era solo e non c’era “nessuno” e se ne tornarono nelle loro grotte.