giovedì 23 aprile 2015

Dalle origini al Novecento: Omero, Joyce, Proust

Proust

Il sapore e il profumo di una madeleine, un piccolo dolce morbido a forma di conchiglia inzuppato nel tè, riportano alla memoria di Marcel Proust la sua infanzia. Questa sensazione, e la necessità di trasformarla in scrittura, danno origine all'intero ciclo di Alla ricerca del tempo perduto.

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Léonie mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…."

 Marcel Proust, Dalla parte di Swann


Joyce

Anche un altro grande romanzo che apre il Novecento letterario, l'Ulisse di Joyce, inizia illustrando i gusti del protagonista Leopold Bloom. Nel testo che segue, i preparativi per la colazione, l’uscita e l’inizio del suo vagabondaggio per la città si sovrappongono ai suoi pensieri e alle immagini della città che il protagonista attraversa. L’episodio, il quarto della seconda parte del romanzo, coincide con il libro V dell’Odissea, in cui Mercurio si reca dalla ninfa Calipso, esortandola a lasciar libero Ulisse, da lei trattenuto nell’isola di Ogigia. Il nuovo Ulisse, l’uomo moderno, non è un eroe come quello di Omero, ma un uomo qualunque, in una città caotica e labirintica, che cerca, senza forse neppure rendersene conto, la sua identità.

Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica. I rognoni erano nel suo pensiero mentre si muoveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d’estate dappertutto. Gli facevano venire un po’ di prurito allo stomaco. I carboni si arrossavano. Un’altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente.


Omero

La simbiosi di parole e sapori non è un frutto della modernità:  basti pensare, tra i capolavori della letteratura antica, a un poema come l'Odissea, che illustra ed esemplifica il variegato e complesso rapporto tra letteratura e cibo.
Nel canto nono dell’Odissea, Polifemo non rispetta le regole dell’ospitalità, bestemmia gli dei, beve senza misura e inoltre lo fa da solo; infatti egli afferma: “ Io non temo il fulmine di Zeus, né so in che cosa Zeus sia più potente di me. Del resto non me ne frega niente. E sta a sentire perché me ne frego. Quando dall’alto manda giù la pioggia, mi riparo in questa caverna, mangio un vitello arrosto e mi innaffio per bene la pancia sdraiato, ingurgitando un’anfora di latte. Faccio sacrifici d’animali solo a me, non agli dei, e alla più grande delle divinità: la mia pancia”. Per questi motivi è punito dagli dei e verrà sconfitto da Odisseo.
  
Arrivammo velocemente alla grotta, ma dentro non c’era; pasceva le grasse pecore. Entrati, vedemmo tante cose: graticci pieni di caci, steccati per agnelli e capretti, boccali pieni di siero e i secchi dove mungeva. Allora essi mi pregarono di rubare i formaggi e gli agnelli, di tornare indietro e di ripartire subito. Ma io non volli ascoltare, e sarebbe stato meglio, perché ero curioso di vederlo e di ricevere i doni ospitali. 
Lo aspettammo dentro, mangiando i formaggi ed ecco che giunse, spinse dentro le pecore grasse da mungere e, avendo alzato un masso enorme e pesante, chiuse la porta: nemmeno 22 carri l’avrebbero potuto muovere. Seduto, egli mungeva le pecore e le capre, accese il fuoco, e ci disse: “Stranieri, chi siete? E di dove navigate…?”. (…)io, molto prudentemente, gli risposi falsamente: “La nave me l’ha spezzata Poseidone, scuotitore della terra, cacciandola contro gli scogli; io solo con loro ho evitato la morte”. A queste parole, non rispose nulla, ma, con un balzo, afferrò due miei compagni, li sbatté a terra, facendo uscire sangue e cervelli. E fattili a pezzi, si preparò la cena: li maciullò e non lasciò nulla, né viscere, né carni, né ossa. (…)Il mattino dopo, il Ciclope divorò altri due compagni ed uscì a pascolare il gregge. (…)La sera rientrò e sbranò altri due compagni. 
Allora io parlai al Ciclope, avvicinandomi con un boccale di vino e glielo offersi, rimproverandolo per la sua ingiustizia verso di loro. Lui bevve e ne chiese dell’altro, chiedendomi come mi chiamavo, finché si ubriacò. Così gli risposi che mi chiamavo Nessuno e gli chiesi nuovamente di darmi il dono ospitale. Lui disse che mi avrebbe mangiato per ultimo e si addormentò. E subito, dopo aver riscaldato il palo appuntito nella brace, con l’aiuto dei compagni, lo ficcai nel suo occhio, che si bruciò. Polifemo gemette di dolore, si strappò il tizzone dall’occhio insanguinato, e chiamò a gran voce gli altri Ciclopi che vivevano nelle grotte vicine. Essi gli chiesero cosa volesse e lui rispose che Nessuno lo uccideva con l’inganno. Ma quelli gli dissero di rivolgersi al padre Poseidone, visto che era solo e non c’era “nessuno” e se ne tornarono nelle loro grotte. 






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