giovedì 30 aprile 2015

Il cibo come eccesso ed esibizione: Petronio Arbitro e Luigi Pulci



L'autore latino del I secolo dopo Cristo, Petronio Arbitro, nel Satyricon propone un episodio grottesco: il ricco padrone, Trimalcione, liberto così facoltoso da avere un trombettiere personale che segnala le ore del giorno, offre ai convitati un banchetto, in cui lusso, sfarzo ed eccessi fanno da padroni. 
La volgarità e l’ostentazione paiono le sue cifre caratteristiche: il liberto mette in atto un vero e proprio spettacolo, fatto di trovate e colpi di scena, governati dal cattivo gusto. 
Il passo propone il momento culminante della cena: sulla tavola viene portato un cinghiale con due cesti di palme e datteri appesi alle zanne, dei cinghialetti appesi alle mammelle e degli uccelli che, una volta aperto il fianco, si liberano dal suo ventre. 
Con il suo realismo comico, Petronio intende offrire una rappresentazione parodisticamente deformata della realtà dei liberti arricchiti, che l’autore osserva con divertito distacco, e che ha molti punti di contatto con lo spreco presente sulle tavole dei ricchi dei nostri tempi.


 [40] « Perfetto! » esclamiamo a una voce, e, alzate le mani al soffitto, giuriamo che Ipparco ed Arato non erano personaggi da paragonare con lui, finché non intervennero i servi a distendere sui letti dei copriletti ricamati, in cui c'erano reti e vedette alla posta con spiedi e tutta l'attrezzatura per la caccia. Né ancora capivamo dove si andasse a parare, quando fuori dal triclinio si levò un gran baccano, ed ecco che cani della Laconia incominciarono a correre per ogni verso senza risparmiare neppure la tavola. Li seguiva un'alzata, dov'era deposto un cinghiale di prima grandezza e con tanto di berretto, dalle cui zanne pendevano due canestrini intrecciati di palme, uno pieno di datteri freschi, l'altro di datteri secchi. Intorno poi dei cinghialetti di pasta dura, come appesi alle mammelle, stavano ad indicare che si trattava di una femmina. E questi, a differenza del resto, servirono da apoforeti. Intanto, a trinciare il cinghiale, non si presentò quello Scalca che prima aveva fatto a pezzi i capponi, ma un gigante dalla gran barba, avvolto di fasce le gambe e coperto di un mantelletto multicolore, che, impugnato il coltello da caccia, lo immerse con forza nel fianco del cinghiale, dalla cui ferita uscì un volo di tordi. C'erano lì pronti con le canne gli uccellatori e li catturarono sul momento mentre svolazzavano per il triclinio. Poi, dopo aver fatto consegnare a ciascuno il suo, aggiunse Trimalcione: « E adesso guardate quel porco selvatico che ghiande delicate si mangiava ». Immediatamente i valletti si accostarono ai canestrini che pendevano dalle zanne e divisero in parti uguali tra i convitati datteri secchi e datteri freschi.








Nel brano, tratto dal poema eroicomico Morgante, Luigi Pulci descrive l’incontro tra Morgante e Margutte, due giganti, accomunati dalla dismisura, che li spinge a guardare alla vita da una prospettiva diversa da quella abituale, alla rovescia, tanto da capovolgere i valori consueti: il credo cristiano viene sostituito, in Margutte, dal credo gastronomico. L’unico motivo per cui valga la pena vivere è il cibo, tanto che Margutte non riconosce alcuna altra fede.

                     

114 Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
       ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
       che da due giorni in qua non ho beuto;
       e se con meco sarai accompagnato,

       io ti farò a camin quel che è dovuto.
       Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
       se se’ cristiano o se se’ saracino,
       o se tu credi in Cristo o in Apollino. -

115 Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
        io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
        ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
        e credo alcuna volta anco nel burro,
        nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
        e molto più nell’aspro che il mangurro;
        ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
        e credo che sia salvo chi gli crede;


116 e credo nella torta e nel tortello:
        l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
        e ’l vero paternostro è il fegatello,
        e posson esser tre, due ed un solo,
        e diriva dal fegato almen quello.
   





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